AspraMente

parole ruvide, pensieri morbidi

De Finibus terrae

De finibus terrae. Così era chiamata dagli antichi questo lembo di terra ficcato tra Ionio e Adriatico a segnare il confine tra l’oriente e l’occidente. Così la chiamano ancora quelli che si vogliono dare un tono e che fanno del latinorum un vezzo e un vanto.  Per me è semplicemente LEUCA. L’infanzia, l’adolescenza, la maturità. Gli amici, i profumi, le attese e le passioni.

Il lento trascorrere delle giornate estive, stretti tra l’afa di uno scirocco impietoso o accarezzati da una tramontana leggera che tutto pulisce e fa brillare.  C’è stato il tempo in cui tutto appariva smisurato, piccoli come si era persi in mezzo a quel mare. Gli ulivi avevano forme demoniache tra le ombre della luna, e i sassi dei muretti a secco sembrava celassero antichi animali sopravvissuti all’estinzione. Era il tempo delle labbra viola e dei polpastrelli rigati per i bagni portati allo stremo, del costume cambiato nell’asciugamano per non bagnare il sedile della macchina, della sabbia antipatica che si attaccava alle caviglie e mai più se ne andava.

Erano i giorni del “tutto si fa con papà e mamma”, dei gelati rubati dai frigo della pensione, degli amici di altre città conosciuti sul bagnasciuga tra uno schizzo e un castello di sabbia. Partire era un po’ rinascere, in quegli anni, perché va bene la vacanza, ma tornare a casa, dai nonni e dai compagni di scuola, voleva dire vantarsi e raccontare le epiche imprese d’agosto e il viaggio di 12, dicasi 12 ore, per arrivare e tornare da laggiù.  

Poi vennero giorni più grandicelli, giorni di ormoni che cominciavano a circolare e gli stessi occhi che guardavano senza vedere, adesso vedevano, vedevano eccome… Con papà e mamma si faceva meno, anche se quello che contava restava saldamente in mano loro. Dalla spiaggia si partiva con maschera, pinne e tubo per dare la caccia agli esanimi scheletri di ricci. Solo il rumore del respiro si udiva con la faccia a pelo d’acqua. Solo il brivido leggero avvertiva che, forse, era ora di rientrare a riva. Calcetti che cominciavano a muovere i primi passi, ulivi che sembravano essersi addolciti, spazi nuovi che potevano essere raggiunti senza lo sguardo vigile dei genitori. Erano i pomeriggi caldi di cicale, trascorsi nel letto con gli occhi che bruciavano per il sale, ma di dormire neanche a parlarne. “Chi viene stasera?” per sapere se gli amici dei grandi avrebbero portato coetanei vivaci coi quali far arrivare la mezzanotte. “Ha detto Cosa che gli piaci…” “Le ho dato un bacio in bocca…” “Ma dai…”. Fu allora che le partenze cominciavano a pesare e di raccontare agli amici a casa se ne poteva fare anche a meno.  Età dura, minacciosa e impervia l’adolescenza. Ma arrivare in riva allo Jonio e prendere a bracciate quello spicchio di mare lavava da tante incrostazioni.

L’ombrellone dei vecchi si faceva sempre più lontano, mentre si allargava la chenga multietnica che dell’ombra non sapeva che farsene. Venti, trenta corpi frizzanti riscaldati dal sole che provavano incerti ad accendere la prima sigaretta sfidando venti, genitori e tosse improvvisa. Sbarbi con un tono da cresciuti che in testa avevano una cosa sola. Sì, sì, quella… Risate a getto continuo e voglia incontenible di prolungare per anni quel mese di pensieri liberi e di profumo di libertà. Anche la sera papà e mamma cominciavano ad esserci meno. Una cena ingoiata e via al ritrovo dietro il Casino. Spiaggia buia picchettata di stelle e quando andava bene una luna brillante. E ce la si raccontava, “cunta, cunta…”. Si cospirava. Si indagava. Si viaggiava intorno al mondo con la mente, restando fermi tra la litoranea e il primo entroterra salentino.

Apparve la prima mora, in quegli anni. Entrò nella testa e nelle ossa fino ad inverno inoltrato. E partire allora non era “un po’ morire”. Era essere giustiziati dopo atroci sofferenze, scarnificati sul cuore con lo strumento crudele della nostalgia. Tanto che lanciarsi dall’auto in corsa sulla via del ritorno appariva l’unica soluzione possibile.  

L’auto in mano. Seduto nel posto davanti a sinistra. Su e giù per le colline d’ulivo, rasentando come un temerario le pietre acuminate dei muretti. Un volante e un abitacolo che sprizzavano libertà, indipendenza, mare aperto. Finito il tempo del “mi potete accompagnare stasera…?”, cominciava quello del “vi serve la macchina stasera?”. Qualche volto non c’era più, sedotto da altre spiagge e altri mari. Chi restava, però, continuava a far crescere i ricordi, veri mattoni di un’immaginaria “casa degli amici”. Ogni nuova estate si ripartiva a costruire dal punto in cui si era arrivati l’agosto precedente.

C’erano anni buoni e anni meno felici. Un po’ di mattoni della memoria erano comunque garantiti.  Ulivo benedetto. In senso laico s’intende. Che di Signori e Dei non se ne vede l’ombra. Ulivo d’ombra e di riposo, per una nuova età dove l’energia si comincia a metterla da parte. Come l’arte. Età di pantaloni che cominciano a stringere in cintura, di capelli che non ci sono più o quasi, di adipe che prolifera e anche in spiaggia la maglietta si fa fatica a toglierla.

Crescono i ricordi, le gesta di un passato prossimo già degne di essere celebrate nelle serate di nostalgia e di sempre più frequenti “ti ricordi quando…?”. Eppure anche con la maturità che minacciosa si fa avanti, non si torna a nanna prima delle 4, si struscia senza alcun motivo sul lungomare o in giro per paesi, ci si appoggia al bancone di un bar col gestore assonnato per l’alzataccia quando tu ancora ti devi coricare. Bar del porto adorato, rifugio e caverna, vetrina immobile e rassicurante di bellezze locali, forestiere e straniere, crocevia modaiolo della gioventù leucana, faro sotto al faro per le notti dove la testa non si sai dove sbatterla e alla fine, come sempre, l’appoggi su quel cuscino vicino alla Meliso.  

30 anni sono un bel po’, eppure da quelle parti lo spirito sembra rimasto quello dei 15, dei 16. Ripetere riti, tradizioni e tic per non perdere i contatti, per non dimenticare nulla o, almeno, per ricordare il più possibile. Siamo rimasti in pochi, cari amici, da quelle parti. In pochi, ma buoni, direbbe qualcuno. Di sicuro siamo pochi. Quante facce non si sono più viste. Passate di passaggio per un anno, opps un mese, soltanto. A volte ti compaiono a fianco dopo anni, che si fatica a riconoscerli. “Ueee, come stai?? Quanto tempo…” e via così che, tanto, per altri 10 anni chi ci si rivede più.

Eppure l’aria che si infila tra Adriatico e Ionio mi piace ancora. Non ci rinuncio. Agosto arriva e io parto. La sdraio adorata mi fa compagnia, piantata fissa sotto l’ulivo ad assobire frescura. In spiaggia, invece, resisto poco, due ore appena, che il caldo con gli anni mi è venuto in antipatia più della Juve e di Silvio. I vecchi ci sono sempre, il mio letto di fronte alla finestra resiste coraggioso, la tv continua a vedersi da schifo e il vecchio non la smette di litigare con l’antenna.

Sorella, invece, si vede di meno, e il letto sotto la finestra negli ultimi anni è rimasto spesso vuoto. Niente più gare a chi resiste di più sdraiato col cuscino sollevato sulle piante dei piedi. Fortuna che dalla finestra, tra i rami d’ulivo, la notte sul letto si vedono le stelle. Viene facile con loro parlare del tempo passato. Farsi uscire ricordi e dare tutta la libertà del mondo al sentimento che più di tutti picchia duro; la nostalgia. Tempo passato non torna più, direbbe Catalano. Si lotta controvento, sperando di recuperare qualcosa che se n’è già andato. È questo il dramma.

E allora sotto quelle stelle fra gli ulivi, perse nel mare di notte, non è difficile vedere le barche raccontate da Francis Scott Fitzgerald. “Così continuiamo a remare, barche controcorrente, risospinti senza posa nel passato”.